“Studio 54”, gli scatti inediti di Hasse Persson

Dopo quasi trent’anni dalla chiusura dello Studio 54, il celebre locale di New York rivive i suoi anni d’oro in una serie di scatti fotografici, fino ad oggi inediti, pubblicati all’interno del libro Studio 54, a firma del fotografo svedese Hasse Persson ed edito da Artbook. Ed è proprio Hasse a raccontare la storia del celebre club e gli incontri che egli stesso vi fece dal 1977 al 1980, anno in cui l’arresto del proprietario Rubell per possesso di droga e frode al fisco ne sancì la chiusura.

“Il 26 aprile del 1977 al numero 254-ovest della 54a Strada a Manhattan, la discoteca Studio 54 aprì i suoi battenti per la prima volta e in sole 1.000 notti divenne il luogo di intrattenimento più famoso del XX° secolo.
Lo Studio 54 fu fondato dai due giovani imprenditori Steve Rubell e Ian Schrager, che furono in grado di leggere i segni del tempo e capire che in quel momento la discoteca era quello che i Beatles ed Elvis erano stati rispettivamente per gli anni ’70 e ’60.
Rubell e Schrager pagarono 700.000 dollari per rinnovare uno studio televisivo della CBS in disuso e affidarono la ristrutturazione a due dei più noti designer di Broadway, Jules Fisher e Paul Marantz, che trasformarono quel posto in una discoteca come mai se ne erano viste prima.

Nella serata di apertura, il party promoter Carmen D’Alessio invitò 5.000 tra le più grandi celebrità del momento, tra cui Mick e Bianca Jagger, Liza Minnelli, Jerry Hall, Margaux Hemingway e gli sposi Donald e Ivana Trump. Lungo la strada, fuori dalla discoteca, regnava il caos ed era uno spettacolo a sé stante, tanto che divenne parte dell’attrazione dello stesso Studio 54. Poiché la discoteca poteva contenere 1.000 persone alla volta, fuori restavano ogni sera centinaia di persone nella strepitante attesa di poter essere notate dallo sguardo di Steve Rubell.
Steve Rubell, dotato di una speciale abilità sociale, aveva trovato una formula perfetta di pubblico per ottenere il massimo della magia nel suo locale. Voleva una “tossed salad” di ospiti – un mix eclettico. E aveva una tecnica che doveva essere pedissequamente rispettata anche quando Steve non era all’ingresso: il mix di persone doveva includere il 20% di ragazzi gay e il 5-10% di lesbiche e travestiti. Il resto comprendeva celebrità di ogni tipo e persone con soldi, cultura e lingue differenti che mostravano la loro popolarità sulla pista da ballo.

Steve Rubell decideva chi far entrare e chi no, come se fossero ospiti di casa sua. Si poteva arrampicare su di un lampione o portarsi in cima a una scaletta per poter avere il controllo della situazione e dire “You’re in! And you’re in!” oppure “No way!” nel caso non fossero persone di suo gradimento (bastava avere una maglietta sbagliata o la barba non rasata!). Steve era brillante nel capire il pubblico. Una volta ammise di non aver riconosciuto i figli del presidente, Caroline and John Kennedy fuori dallo Studio 54. Ma poi faceva spesso entrare i bambini di Harlem, i loro colori e la loro stravaganza erano illuminanti. Anche le persone anziane avevano un loro spazio, soprattutto se donne mature e vestite con stile.

Steve, seduto in un “seggiolone” fuori dallo Studio 54 mescolava la sua “insalata” con misurato realismo e dura onestà. Nel suo libro Esposizioni (1979), Andy Warhol scrive dell’incubo ricorrente di non essere fatto entrare nella sua discoteca preferita, dato che il suo amico Steve non era sempre alla porta. Così elenca i cinque migliori modi per poterne oltrepassare il varco:
1. Presentarsi insieme ad Halston o indossando un vestito da lui disegnato.
2. Arrivare molto presto o molto tardi.
3. Arrivare in limousine o in elicottero.
4. Non indossare nulla in poliestere, nemmeno la biancheria intima.
5. Non menzionare il mio nome [Andy Warhol].

Ho fotografato Andy Warhol un sacco di volte allo Studio 54. Non gli piaceva che le persone gli si avvicinassero troppo, così portava sempre con sé una macchina fotografica o una videocamera per schermare se stesso dagli altri. Era estremamente difficile parlare con lui. Le sue solite risposte erano “fantastico”, “terrificante” o semplicemente “wow”. La conversazione più lunga che ho avuto con lui è stata durante una pubblicità per Absolut Vodka. Gli chiesi se gli piaceva Absolut.«Non l’ho mai assaggiata» — rispose — «Ma io la uso come deodorante da mettere sotto le le ascelle e tra le mie gambe».

Se fuori dallo Studio 54 regnava la dittatura, la pista da ballo era totale democrazia. Si poteva vedere Michael Jackson fare il suo moonwalk solo per divertimento, o anche ballare con Bianca Jagger o Diana Ross. Ogni persona lì dentro era una stella, chiunque fosse riuscito ad entrare era un vincitore.
La musica era ovviamente la chiave del successo di Studio 54. Mettevano i dischi i migliori DJ di New York, come Nicky Cyano e Richie Kaczor. I Feel LoveHot Stuff di Donna Summer, I Will Survive di Gloria Gaynor, Disco Inferno dei The Trammps e Stayin’ Alive dei Bee Gees, erano sempre sul giradischi. Ma la sala da ballo non si scaldava davvero finché il DJ non metteva Lady Marmalade: Voulez-coucher avec moi vouz (ce soir)? di Patti LaBelle oppure l’erotica In the Bush dei Musique.” (Hasse Persson)

Studion 54 Cover
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© Hasse Persson
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© Hasse Persson

“La maggior parte delle foto che ho scattato all’interno dello Studio 54 non sono mai state pubblicate prima d’ora. Dopo molte sperimentazioni riuscii a trovare il modo di catturare l’essenza di quel posto, utilizzando il flash per congelare il soggetto ritratto e contemporaneamente aprendo l’otturatore per trenta secondi. Questo mi permetteva di imprigionare nella pellicola i movimenti del ballo, le luci e i dettagli tipici della cultura disco.” (Hasse Persson)

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© Hasse Persson
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Andy Warhol insieme a una ragazza sconosciuta, 1979 © Hasse Persson
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Halston, Andy Warhol, Bianca Jagger, 1977 © Hasse Persson
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Truman Capote, Fashion Editor D.D. Ryan & Co © Hasse Persson

Design Playground è un viaggio nella creatività attraverso i progetti più suggestivi della cultura contemporanea. Un racconto fatto di storie, di idee e di sogni.

Design come “progettazione di un artefatto che si propone di sintetizzare funzionalità ed estetica”.

Siamo partiti proprio da qui, dal termine design. Una parola che, come spesso accade con i termini di cui si abusa, ha perso il suo significato originale. O meglio, siamo noi che lo abbiamo perso di vista. Il design non è lusso, il design è creatività ma soprattutto, ricerca e progetto, è saper ascoltare e capire le necessità. Con le parole di Enzo Mari tratte da 21 modi per piantare un chiodo“Credo che il design abbia significato se comunica conoscenza”.

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