Come accennato nell’ultimo post su Memorie Urbane, torniamo a parlare di Guido Bisagni, in arte 108, con una piccola ma intensa intervista.
Vi premetto che chi ha scritto questa intervista è follemente innamorato dei lavori di 108 e incuriosito dalla sua ricerca ed evoluzione.
Stimo profondamente chi, in ogni ambito, riesce a sostenere una diversità, un proprio stile e un proprio linguaggio.
In un’epoca in cui si sente sempre più spesso parlare di street art, 108 rappresenta uno sguardo non omologato, in grado di interrogare, di rompere gli schemi, di dare spunti di riflessione e nuove vie di scoperta senza snocciolare soluzioni o verità.
L’opera di 108 frantuma le certezze, è introspezione che logora. Si insinua sotto la nostra pelle e scava tra i ricordi primordiali sopiti dentro di noi.
Guido Bisagni, in arte 108, nasce ad Alessandria nel 1978. Come altri illustri colleghi inizia a fare graffiti in strada, in Italia e nelle principali capitali europee, ma presto matura uno stile artistico personale e originale, per cui è conosciuto in tutto il mondo e apprezzato da tutti i maggiori esperti di arte urbana.
Astratto e poetico, lascia sui muri le tracce di una riflessione profonda, fatta di un immancabile segno nero che riempie forme immaginarie e di colori che sgorgano fuori come da piccole fratture nella pietra. Opere che scomodano un immaginario tribale, quasi ancestrale, che si solidificano in installazioni 3d sui temi delle forme naturali, come quella dell’albero, e artificiali, come i volumi puri.
Come è nata in te la passione per l’arte e come hai deciso di dipingere per strada?
Non ricordo esattamente quando ma ho iniziato a disegnare probabilmente appena sono riuscito a tenere una matita in mano. Prima che io nascessi mia mamma dipingeva, mio padre anche faceva schizzi e disegnini, e ricordo che mio nonno mi insegnava a disegnare soli con la faccia e treni. In casa mia c’erano fumetti e libri illustrati, io volevo solo disegnare e questa cosa non mi è mai passata.
Alle elementari ero in una classe vecchio stile, la maestra non ci faceva mai disegnare, ma io lo facevo lo stesso, principalmente dinosauri, che lei chiamava mostri. Allora mi sono messo a disegnare ancora di più, diavoli e scheletri, così è andata avanti fino a quando verso i 12-13 anni ho iniziato a skateare. Odiavo lo sport, il calcio e tutto quello che mi obbligavano a fare a scuola. Lo skate era diverso, uscivo incontravo i miei amici e andavamo per la strada, nei parcheggi dei supermarket. È stata la svolta della mia vita. Qui ho incontrato il punk/hc, i graffiti e molto altro.
Con un tratto marker ho iniziato a fare orribili tag sui gradini; una sera – me lo ricordo benissimo, era il 1992 e avevo appena iniziato il primo superiore – appena usciti da scuola io e un mio compagno di banco andammo a comprare una bomboletta rossa e una nera dal ferramenta, e appena andata giù la luce del giorno andammo in un vicolo dove c’erano scritte storiche anni ’80, tipo quelle dei Peggio Punx, e cercammo di fare dei throw ups! Uno c’è ancora, tutto sbiadito!
È stata la svolta. Lì ho capito che aspettare qualcuno che a scuola o tra le conoscenze si accorgesse del mio desiderio di disegnare era tempo sprecato e dovevo arrangiarmi da solo e far vedere chi ero per conto mio.
Cosa ti ha portato a distaccarti dal mondo dei graffiti ed entrare nel circuito della street art?
A dir la verità non l’ho mai pensata in questo modo. La parola street art è venuta fuori quando noi facevamo già cose diverse dalle lettere. Per anni avevo fatto quello, prima cercando di copiare le cose classiche di New York, poi la roba tedesca e svizzera e infine le cose scandinave.
Dalle mie parti eravamo tutti più vicini al punk e a certi movimenti underground, quindi avevamo un modo un po’ strano di fare le cose, eravamo e siamo sempre stati molto ironici verso noi stessi. Parlo di me, Dr. Pira (Suede) e altri del giro PRC e poi OK, tipo Peio, facevamo lettere, lettere e lettere…ma ci piaceva guardare queste cose strane tipo le paperelle a Bologna, alcune cose matte che si vedevano sui muri delle nostre città e che tutti consideravano outsider.
Sicuramente uno che ci influenzò moltissimo fu Lemon dei Tka di Milano. Comunque, il primo credo sia stato Suede, ora conosciuto come Dottor Pira appunto: a volte scriveva i nomi degli oggetti sugli stessi, “grondaia” sulla grondaia, “tubo”, “bidone” ecc… oppure faceva dei personaggi disegnati malissimo che dicevano cose senza senso, nello stesso periodo in cui faceva wild style. Poi si è messo a disegnare le scarpe, wallcar pieni di scarpe. Eravamo sempre insieme e volevamo fare una cosa nostra, non copiata dalle fanze. Anch’io ho iniziato in modo un po’ dadaista, prendevo delle pellicole e le tagliavo a caso; a distanza di anni devo dire che sicuramente leggere le gesta di Arp mi influenzò completamente, mi piaceva fare cose che la gente non capiva. Poi c’era Stak che faceva quei loghi neri a Parigi, lui secondo me è stato quello che ha cambiato tutto nei graffiti.
Che tipo di strumenti e tecniche hai utilizzato in passato e che tecniche utilizzi oggi per realizzare i tuoi lavori?
Prima di trasformarmi in 108 per dipingere sulle superfici verticali usavo esclusivamente gli spray. Poi man mano ho iniziato ad utilizzare anche rulli e pennelli, pellicole adesive, fil di ferro, legno e altri materiali per realizzare non solo pitture, ma anche sculture e altro.
Comunque ciò che io prediligo è un rulletto medio con della pittura nera bella allungata, con queste due cose mi sento realizzato.
Descrivici il tuo processo creativo…ovvero, nel tuo lavoro cosa viene prima? L’idea, il luogo o la forma?
Sicuramente tutto il mio percorso parte dalla ricerca della forma. La forma non è solo una cosa estetica, ma rispecchia completamente quello che sono io.
Poi c’è il colore, generalmente infatti uso il nero per rendere la forma più forte, ma la ricerca simbolica del colore è importantissima. Se dipingo in luoghi pubblici la ricerca della superficie diventa importantissima: può essere un piccolo sportello grigio per la strada o un vecchio muro in un bosco ma è importante quanto la pittura.
Come ti relazioni con i luoghi in cui lavori? Quale è lo spot che 108 sogna la notte?
Per prima cosa devo dire che non mi interessano le dimensioni, o meglio mi interessano se il lavoro lo richiede.
La dimensione “pezzo” è la mia preferita ed è una delle cose che mi ricollega ancora oggi direttamente al writing. Prediligo muri alti circa 3 metri al massimo e lunghi 5 o 6, dove il rapporto corpo superficie ha ancora un senso.
Per me è importantissimo sentirmi bene mentre dipingo! Inoltre negli anni ho iniziato sempre di più ad apprezzare i lavori in luoghi isolati, più intimi, come vecchi muri in mezzo alla campagna, vecchie industrie e relitti industriali. Ho un grande rispetto per questi posti e quando decido di dipingere cerco di non essere invadente, come se fossi della muffa o del muschio. Uso il nero non troppo pieno anche per quello e mi piacerebbe usare colori completamente degradabili in modo da rispettare il luogo.
Quanto la tua città ha influenzato il tuo lavoro?
Sicuramente Alessandria e le zone circostanti sono un’influenza fondamentale nel mio lavoro ma non solo: durante i miei viaggi, fin da piccolo, alcuni luoghi e soprattutto le loro atmosfere si sono fissate nella mia mente.
In ogni caso le mie zone hanno sicuramente avuto una grandissima influenza, sia conscia sia inconscia, e in modo positivo e negativo al tempo stesso mi sento magicamente legato ad esse. La sensazione di decadenza che da quando sono nato accompagna questa città – che è stata una delle più importanti del Nord per industria e settore militare, e che oggi credo sia il luogo in cui la crisi economica, ma soprattutto sociale, è più forte – è profondamente radicata in me. In ogni caso, per farla breve, è una tipica grigia città post industriale, circondata da colline meravigliose piene di magia, quindi piena di contrasti. Il clima non è di certo quello mediterraneo: freddo e neve d’inverno e caldo afoso d’estate, nebbia sempre, anche se, purtroppo, il clima sta cambiando.
Io amo i cieli plumbei, la pioggia, la nebbia e soprattutto la neve, che è un elemento fondamentale nel mio lavoro. Tuttavia voglio sottolineare che non sono un campanilista, so di essere legato a questi luoghi, ma so anche che appena possibile varco le Alpi perché amo tutta l’Europa che, dalla Francia alla Russia, considero come casa.
A chi o a cosa ti ispiri per realizzare il tuo processo creativo? Ci sono artisti che stimi in maniera particolare e che ti hanno influenzato?
Il mio lavoro è indivisibile dalla mia persona. Tutto mi influenza, dagli alberi alle montagne, dalle pietre incise in epoca preromana ai lavori manuali che vedevo fare a mio nonno da piccolo.
Nel campo dell’arte amo centinaia di artisti da Bosch a Segantini, ma restringendo il campo sicuramente sono le avanguardie ad avermi influenzato quando ho deciso di diventare 108. “Lo spirituale nell’arte” di Kandinsky è il libro a cui devo tutto e a cui, ancora oggi, mi rifaccio. Kandinsky per me è fondamentale. Malevich anche e molti dei miei lavori sono nati pensando alle idee spesso in contrasto di questi due artisti.
Un altro artista fondamentale è Jean Arp, anche con lui mi sono trovato più volte in contatto.
Molti vedono l’astrattismo come un qualcosa di completamente freddo e razionale, per me è l’esatto contrario, c’è qualcosa di cosmicamente magico nelle forme e nei colori che mi avvicina all’ignoto e che ho trovato in questi artisti.
Nel dopoguerra altri artisti fondamentali sono Burri e il Fontana del periodo spazialista. Questi due artisti sono per me chilometri sopra ai vari espressionisti astratti.
A livello contemporaneo l’artista più importante per me, lo ripeto, è stato Stak (Olivier Kosta Théfaine), colui che per me ha “superato i graffiti” veramente. Poi molti altri: sicuramente quelli con cui mi trovo più in sintonia negli ultimi anni, con cui ci influenziamo a vicenda e che, secondo me, sono i più grandi artisti cioè Erosie (Olanda) ed Ekta (Svezia).
Ci sono fattori della tua vita personale che hanno influenzato il tuo modo di lavorare?Sicuramente sì. Come dicevo prima, per me è impossibile dividere la vita personale da quella artistica. Negli anni mi rendo conto di molte cose… i libri di fumetti che mia mamma aveva in casa, specialmente roba francese e italiana d’autore (Moebius, Druillet, Crepax, Pratt…), i racconti di montagna dei miei nonni e sì, soprattutto mio nonno, lui è stato il personaggio chiave per me. È stato in guerra, poi prigioniero e poi operaio in una fabbrica di metalli pesanti fino alla pensione, eppure sempre elegante nel vestire e nel parlare, pieno di libri ed enciclopedie. Costruiva plastici e modellini con una manualità incredibile; è grazie a lui probabilmente che, pur non essendo ricco, ho sempre dato importanza ai miei progetti, resistendo e cercando di fare il meglio per me, prima di tutto. Mi piacerebbe avere ereditato anche il suo ordine…
Cosa significa per te creare arte?
Significa fare la cosa più importante che possa fare nella mia vita; è una cosa sacra, anche se la nostra società moderna non lo capisce, ed è per questo che ho fatto e sto facendo così tanti sacrifici per continuare a farla.
Per il tuo “IO” cosa rappresenta il nero e cosa il colore?
A parte il lato più pratico per cui il nero è il colore di maggior impatto e il più diretto per le forme semplici, è poi simbolo di un lato estetico oscuro che ho sempre amato; il nero sicuramente è il colore che mi rappresenta di più. Per me rappresenta il (non) colore dell’introspezione, è il colore perfetto in cui perdersi a pensare. Io amo molto farmi delle domande, quello che non capisco fino in fondo mi attira di più di quello che è palese.
Per anni ho escluso i colori, creando questo muro tra me e il resto del mondo e concentrandomi solo sulle forme; il nero però è l’insieme di tutti i colori che mischiati assorbono tutte le radiazioni luminose e che quindi le contiene. Un giorno rileggendo il solito Spirituale nell’arte e Paradiso Inferno di Huxley, mi sono reso conto che eliminando il colore mi stavo perdendo una parte troppo importante, anzi fondamentale, per trascendere la realtà e ho deciso di reinserirlo. Di solito li uso con parsimonia, per il grandissimo valore che essi hanno: il rosso ad esempio, quando viene usato in piccole parti vicino al nero brilla di tutto il suo valore che va molto oltre quello che noi possiamo comprendere.
Poniti una domanda sulle tue opere e datti una risposta (come se non fossero le tue)…
Come trovi le forme? Cerco di pensare il meno possibile mentre disegno.
Sulla confusione che spesso viene fatta tra street art, graffiti e arte pubblica, qual è il tuo punto di vista?
Si tratta solo di etichette e di superficie. Ovviamente le etichette ci aiutano a comunicare più velocemente e quindi bisogna usarle. Per quanto mi riguarda mi considero solo un pittore che usa diverse superfici e non ha sempre bisogno di commissioni per lavorare, un pittore per certi versi più libero. A volte.
Arte pubblica è forse la parola più adatta al 99% di quello che si vede in giro e che viene chiamato street art, perchè in effetti si tratta di arte (cerco di essere positivo) fatta in luoghi pubblici.
Street art è una parola che faccio fatica a pronunciare, oggi per la maggior parte dei casi si tratta di muralismo infatti, solo che la parola “street art” va più di moda e fa girare più soldi. Credo che street art fosse una parola adatta in un certo periodo, fine anni ’90 e inizio 2000 in cui noi di una certa età siamo passati, nel quale si era passati dalle tag e dai pezzi a fare adesivi, posterini e stencil… era comunque una cosa spontanea e la parola graffiti o writing non funzionava più. Ora, come ho già detto, è solo un modo per fare eventi, libri e tirare su due soldi.
Graffiti è sicuramente la parola che preferisco, infatti descrive di solito un tipo di arte pubblica spontanea. Ancora una volta è stata americanizzata e, di solito, quando la si sente si pensa ai “graffiti di New York” e quindi poi al “writing” in generale, ma è nata per indicare le pitture e le incisioni rupestri, le scritte trovate sui muri disseminati ovunque nel corso della storia, come a Pompei. Quindi credo sia un buon termine per descrivere un fenomeno vero e spontaneo che da sempre esiste.
In ogni sono etichette a cui commercialmente si sono attribuiti i più disparati significati e quindi vanno presi con le pinze.
Legale o illegale…. moda o cambiamento?
Sono tutte domande centrali se stiamo parlando di graffiti: difficile rispondere in poche righe. Quando ero un ragazzino e facevo lettere il fatto di dipingere illegalmente aveva una grande importanza, ma non tanto come sfida, quanto per il fatto di dipingere in luoghi più visibili possibile. Per me e altri delle mie parti era anche una condizione forzata, poichè non abbiamo mai avuto un muro legale.
Comunque con l’età è cambiato molto, la cosa che mi importa di più ora, quando dipingo in ambito pubblico, è realizzare superfici che mi soddisfino e che siano adatte al mio lavoro, per questo preferisco parlare di lavori “non commissionati”.
A inizio 2000 con gente come Dem, Peio del gruppo OK e altri pochi artisti sparsi per tutta l’Europa di cui i più grandi furono Honet e Stak, iniziammo a cercare posti abbandonati, di solito fuori dai centri urbani e a dipingerli, tenendo anche un certo rispetto per questi luoghi.
Non lo dico per me, ma per tutti quelli che c’erano in quel periodo, credo che se uno guardasse il fenomeno in modo un po’ più adulto e serio, quella sarebbe una parte molto importante di questa storia, molto più importante del fatto di fare faccioni realistici o muri di 300 metri di lunghezza.
Preservare o lasciare che l’effimero abbia la meglio?
L’arte è effimera, l’arte pubblica è più effimera delle altre, non me la sono mai presa quando qualcuno mi ha coperto un lavoro, se non quando era una vera e propria provocazione, ma anche in quel caso, capita.
Pensi che la street-art possa portare a una nuova idea di arte e a una commistione di generi rispetto alle opportunità offerte da un museo inteso in senso tradizionale?
No! Credo che tutto sia già stato fatto! Anzi, provocatoriamente, ti dico che forse la “street-art” stia banalizzando molte cose e abbassando il livello.
Ti faccio un esempio per tornare a me e al posto da cui vengo. Nel 1939 in pieno periodo fascista e in piena seconda guerra mondiale, venne costruita la nuova posta centrale di Alessandria: architettura razionalista, di quelle che poi non si sono più viste, su cui Gino Severini fece un grande mosaico che io da piccolo vedevo sempre e che mi colpiva sempre molto. Una commissione importante in cui l’artista descriveva la storia delle comunicazioni dei quattro continenti. La street art oggi funziona perchè costa poco e non ha contenuti. Lo dico da “street artist”, io di solito quando viaggio preferisco vedermi un museo che andare in giro a cercare i muri, devo essere onesto.
Credo che quando una cosa è veramente spontanea, finchè rimane “undergroud”, esiste una sorta di selezione naturale dettata dalla scena e dagli autori stessi. Quando si entra nei musei esiste (o meglio dovrebbe esistere) una selezione più accademica, che non sempre funziona, ma in qualche modo esiste. Quello che è successo alla street art è di essere nel mezzo, il suo funzionare commercialmente le ha fatto perdere la spontaneità (ovviamente parlo del grosso, esistono ancora cose stupende nelle strade) e di conseguenza è diventata soggetta al gradimento immediato del pubblico, esattamente come le televisioni commerciali. A pensarci bene, in effetti, è la vera arte contemporanea anche per questo, ed è per questo che io sono sempre stato un po’ un outsider.