Le Corbusier, 1929.
Appartamento sugli Champs-Elysées

Il limite tra il dentro e il fuori si era fatto flebile come quello tra realtà e sogno.

© FLC/ADAGP

Nel 1929 Le Corbusier progettò per l’eccentrico milionario e collezionista d’arte messicano Charles de Beistegui un appartamento – oggi andato distrutto – al numero 136 di Avenue des Champs Elysées (all’incrocio con Rue Balzac e a due passi dall’Arco di Trionfo), che segnerà una nuova sensibilità nel campo dell’architettura. L’appartamento, arroccato al sesto e settimo piano di un vecchio immobile, demoliva ogni nozione del razionalismo di cui Le Courbusier era universalmente considerato portavoce, aprendosi a giocosi paradossi chiaramente ispirati al mondo surrealista. L’attico infatti, nonostante si ergesse con la forma di uno degli archetipici cubi bianchi dell’architetto, era caratterizzato da numerose terrazze che, mescolandosi con la struttura dell’edificio, confondevano espressamente l’aperto col chiuso, il sopra con il sotto e il passato con il presente.
Ancor più surrealista era il posizionamento degli arredi; uno specchio, un camino, sedie e mobili generalmente utilizzati per gli interni erano infatti posti all’esterno. Un spazio destabilizzante dove anche il limite tra il dentro e il fuori si era fatto flebile come quello tra realtà e sogno.

Questo cantiere ha rappresentato per Le Corbusier l’occasione perfetta per approfondire importanti ricerche, in particolare nel campo dell’insonorizzazione. È stato inoltre un modo per dare spazio a installazioni elettriche e meccaniche molto complesse solo per puro divertimento: le pareti di vegetazione del giardino che scompaiono elettricamente, la grande finestra sul salone che anch’essa si apre elettricamente, il muro di separazione tra la sala da pranzo e il salotto ancora una volta a scomparsa elettrica, (anche in questo caso tutti sistemi utilizzati per confondere il limite tra gli spazi della casa) ecc… Installazioni che hanno comportato l’utilizzo di ben 4.000 metri di cavi. Anche la realizzazione dei tre giardini pensili ha costituito una eloquente risposta al tradizionale utilizzo di piastrelle e di ardesia per la costruzione di tetti e ha gettato basi solide per più nuove e moderne tecniche.

© FLC/ADAGP
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Siamo partiti proprio da qui, dal termine design. Una parola che, come spesso accade con i termini di cui si abusa, ha perso il suo significato originale. O meglio, siamo noi che lo abbiamo perso di vista. Il design non è lusso, il design è creatività ma soprattutto, ricerca e progetto, è saper ascoltare e capire le necessità. Con le parole di Enzo Mari tratte da 21 modi per piantare un chiodo“Credo che il design abbia significato se comunica conoscenza”.

Quello che ci prefiggiamo è raccontare quel design che comunica appunto la storia e le conoscenze che hanno permesso di arrivare alla sua sintesi. Tutto questo in uno spazio aperto a tutti, un playground, dove sia centrale la voglia di conoscere, approfondire e cercare spunti di riflessione.


Massimo Vignelli ha affermato: «Il design è uno – non sono tanti differenti. La disciplina del design è unica e può essere applicata a molti ambiti differenti». E ancora Ettore Sottsass “il design è un modo per discutere di società, politica, erotismo, cibo e persino di design. Alla fine, è un modo per costruire una possibile utopia figurativa o una metafora della vita”.

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