“Sguardi in bianco e nero”.
Intervista ad Anita Sto

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© Anita Sto, Flesh Cards – Polaroid Photograph and Typed Thoughts (2014 series)

Che cos’è oggi un’opera d’arte? Come nasce una storia? Cosa accade quando, a un certo punto, si sta davanti a un oggetto, a un’immagine e si sente di averla conosciuta, usata, toccata, posseduta in un tempo di cui non si conserva il ricordo? Eppure le mani si muovono come se sapessero già, spuntano nomi e luoghi nella testa. Come può un’opera sollecitare una memoria che parla di futuro? Opere come memoria di esperienze ancora da compiere in cui il corpo saprebbe già dove andare a cercare.
Ci sono opere che giocano con il tempo; possono farlo perché sanno cosa sia il tempo, esse sono il tempo. Le opere parlano delle mani che le hanno realizzate, ma parlano anche delle mani che dovranno ancora arrivare: sono l’esperienza di uno, di tutti e di nessuno.

Anita Sto. Guardare il suo lavoro è entrare e uscire da una di quelle storie che ronzano in testa e non sapere come sia arrivata lì, ma smettere di pensarci è impossibile; come è impossibile smettere di guardare le sue creature.
Osservando i lavori di Anita Sto è inevitabile non rintracciare un percorso storico artistico, le sue opere sembrano attivare un dibattito che ha radici lontane e, allo stesso tempo, lanciano ponti verso il futuro… Quello che resta è uno spazio frammentato di presente, stratificato di tracce; quello che resta è una materia in trasformazione che vira continuamente tra la formazione di un’immagine e la distruzione di essa. Opere d’arte come campi dinamici di forze che riflettono sul tempo, lo spazio, la storia; opere come creature che cercano di affermare la loro mutevole identità in un tempo che sfuma sempre più i propri confini.

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© Anita Sto, Flesh Cards – Polaroid Photograph and Typed Thoughts (2014 series)

A partire dalla Seconda guerra mondiale si è assistito a uno spostamento del baricentro del dibattito artistico dall’Europa agli Stati Uniti, ci sono state contaminazioni e infine la nascita di una nuova percezione dell’opera sempre più autonoma dai parametri precedenti: la perdita del centro, la traslazione dell’opera dalla dimensione verticale a quella orizzontale, opera d’arte che entra a far parte della vita e come ogni essere vivente entra a patti con il tempo.

Un’artista italiana che vive e lavora negli Stati Uniti. Qual è il tuo rapporto con la storia dell’arte?
La comunicazione per immagini è sempre stata la forma di espressione da me preferita. Mi piaceva scarabocchiare sui libri di storia dell’arte e ringrazio la mia famiglia per avermi lasciata libera di disegnare sui muri di casa. Sono atterrata a New York senza immaginare che quel viaggio sarebbe stato una di quelle rare occasioni che cambiano il corso della propria vita. A New York ho approfondito tutto quello che avevo precedentemente studiato o di cui mi ero appassionata riguardo la storia dell’arte. Sono un’artista autodidatta. A scuola si imparano le tecniche, nella vita ci si arricchisce con l’esperienze e le sperimentazioni.

Guardando le tue opere sembra di poter continuare, in modo sicuramente diverso ma affine, a esplorare le dinamiche aperte da artisti come Francesca Woodman ed Eva Hesse, dagli esponenti del New Dada americano, dallo happening, dall’arte concettuale… Esempi forse scollegati tra loro eppure i tuoi lavori sembrano riconnettere rifessioni sparse nel tempo della storia dell’arte e ricucirle insieme sotto una nuova possibiltà. Sono le tue opere a suggerirmelo o si tratta di una mia intuizione totalmente arbitraria?
Ahah Si! Tutti gli artisti che hai citato e pochi altri ancora, sono sempre stati nel mio interesse per il loro atteggiamento nei confronti dell’arte, per le tecniche impiegate e per il movimento a cui appartenevano.

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© Anita Sto, immagine tratta dalla serie Signs of life (2012)
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© Anita Sto, immagine tratta dalla serie Signs of life (2012)
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© Anita Sto, immagine tratta dalla serie Signs of life (2012)

Raccontaci il tuo “a un certo punto”, ovvero quello che definiresti l’inizio della tua ricerca artistica e quello che poi è diventato il tuo modo di muoverti all’interno di quella che forse potremmo definire un’esplorazione creativa continua.
Mi spiace ma non ho vissuto alcun “a un certo punto” da porter raccontare… Mi piace disegnare, fare foto, scrivere a macchina giochi di parole come ad un’altra persona piace correre, ballare, schiacchiare pisolini, fare immersioni…

Che cos’è per te un’immagine?
Un simbolo che racconta una storia, un’emozione o che senza pretese, mette in mostra il Bello, solo per puro piacere estetico.

Se dovessi parlare del tuo lavoro, qual è il tuo medium? Qual è la materia del tuo lavoro?
Il bianco-e-il-nero con carta e penna, tela e pittura, pellicola e luce. Il mezzo che uso è il contrasto di due elementi come lo sfondo e la materia.

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© Anita Sto, Flesh Cards – Polaroid Photograph and Typed Thoughts (2014 series)
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© Anita Sto, Flesh Cards – Polaroid Photograph and Typed Thoughts (2014 series)
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© Anita Sto, Flesh Cards – Polaroid Photograph and Typed Thoughts (2014 series)
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© Anita Sto, Flesh Cards – Polaroid Photograph and Typed Thoughts (2013 series)
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© Anita Sto, Flesh Cards – Polaroid Photograph and Typed Thoughts (2013 series)

La vita delle opere d’arte. Molti tuoi lavori portano con sé una forte riflessione sul tempo, sulla durata… Un esempio più specifco può essere il tuo lavoro dal titolo Flesh Cards. Raccontaci di quest’ultimo o di tutti i lavori che in qualche modo ruotano intorno al mistero della vita dell’opera d’arte come durata.
Le Flashcards sono carte usate spesso dagli studenti per la memorizzazione. Il mio progetto si chiama invece Flesh Card. Ho pensato che le esperienze che diventano poi memoria, sono rintracciabili sulla pelle (flesh). La mia collezione di foto di famiglia trovate nei junk stores di Brooklyn si affiancava bene ad alcuni dei pensieri che spesso, quando non sono pigra, scrivo a macchina su carte bianche. In questo modo è iniziato questo lavoro.

In altri lavori emerge la presenza, a volte in frammenti, del tuo corpo o della tua immagine. Che ruolo hanno nella tua indagine e nel tuo linguaggio?
Credo che il corpo umano possa esprimere benissimo concetti, emozioni, situazioni. Con la luce, il contesto, la forma, il corpo diventano parte di un set. Spesso anche solo un dettaglio di pelle, una ruga, una ferita possono racontare mille strorie diverse. Preferisco la semplicità all’abbondanza di dettagli, perché il corpo non mente. Trovo molto romantica e affascinante la vulnerabilità della natura umana.

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© Anita Sto, immagine tratta dalla sequenza WOMAN WHO BLUSHES WHEN SHE LOOKS IN THE MIRROR BEFORE HEADING OUT FOR A DATE, 2012

Quali sono stati i progetti espositivi che più ti rappresentano o che hanno segnato per te una tappa importante ai fni della diffusione del tuo lavoro?
La performance di un anno senza specchi. Ho dedicato tutta me stessa e investito gran parte del mio tempo in questo progetto. Per un anno consecutivo ero sotto stress e totalmente focalizzata su quello che stavo sperimentando e documentando. Ho conosciuto persone che mi hanno contattato da diverse parti del mondo, incuriosite dall’esperimento.

Riscontri differenze tra i pubblici americani e quelli italiani? Lo spettatore ha un ruolo attivo nella natura della tua opera d’arte?
L’arte non ha confini e differenze culturali, la stessa cosa vale per il ruolo del fruitore. Non ho riscontrato alcuna differenza di percezione tra una sponda dell’oceano e l’altra. I miei lavori non appartengono ad un movimento specifico, piuttosto sono ricollegabili al lavoro di introspezione che chi piu chi meno è interessato a perseguire.

Infine. Chi è Anita Sto?
Mi piacciono i numeri dispari. Scrivo con la destra. Alle 5 del pomeriggio il colore dalla mia ombra è hot-pink. Qualità su quantità. Un occhio è di mia madre e l’altro è di mio padre. Alcune volte vedo in bianco e nero.

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© Anita Sto
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© Anita Sto, immagine della serie Heads (2010-2011)
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© Anita Sto, immagine della serie Heads (2010-2011)
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© Anita Sto, immagine della serie Heads (2010-2011)
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© Anita Sto, immagine della serie Heads (2010-2011)
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© Anita Sto, immagine della serie Cubes (2010-2011)
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© Anita Sto, immagine della serie Cubes (2010-2011)
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© Anita Sto, immagine della serie Cubes (2010-2011)

Design Playground è un viaggio nella creatività attraverso i progetti più suggestivi della cultura contemporanea. Un racconto fatto di storie, di idee e di sogni.

Design come “progettazione di un artefatto che si propone di sintetizzare funzionalità ed estetica”.

Siamo partiti proprio da qui, dal termine design. Una parola che, come spesso accade con i termini di cui si abusa, ha perso il suo significato originale. O meglio, siamo noi che lo abbiamo perso di vista. Il design non è lusso, il design è creatività ma soprattutto, ricerca e progetto, è saper ascoltare e capire le necessità. Con le parole di Enzo Mari tratte da 21 modi per piantare un chiodo“Credo che il design abbia significato se comunica conoscenza”.

Quello che ci prefiggiamo è raccontare quel design che comunica appunto la storia e le conoscenze che hanno permesso di arrivare alla sua sintesi. Tutto questo in uno spazio aperto a tutti, un playground, dove sia centrale la voglia di conoscere, approfondire e cercare spunti di riflessione.


Massimo Vignelli ha affermato: «Il design è uno – non sono tanti differenti. La disciplina del design è unica e può essere applicata a molti ambiti differenti». E ancora Ettore Sottsass “il design è un modo per discutere di società, politica, erotismo, cibo e persino di design. Alla fine, è un modo per costruire una possibile utopia figurativa o una metafora della vita”.

Design Playground attraversa i differenti ambiti della progettazione trattandoli come parte di un unicum che li comprende tutti: dalla grafica alla fotografia, dall’illustrazione al video, dall’industrial design all’arte.