In occasione dell’ultimo muro, intitolato Cerchio G016 e realizzato a Porto Sant’Elpidio per il progetto “Parlare Futuro. Lezioni d’Autore”, abbiamo deciso di scambiare due chiacchiere con l’artista Giulio Vesprini per farci raccontare il suo lavoro sia da un punto di vista artistico sia curatoriale (Giulio è anche ideatore e curatore del progetto di riqualificazione dell’area portuale di Civitanova Marche “Vedo a Colori“).
Come è nata in te la passione per l’arte e come hai deciso di lavorare in strada?
Da un po’ di tempo penso che l’attitudine alle discipline artistiche sia una questione embrionale e che solo dopo aver preso coscienza delle proprie capacità si scelga se coltivarle o meno. Credo che questa passione si generi molto prima che ce ne rendiamo conto e solo ad un certo punto, quando saremo chiamati alle arti, potremmo scegliere se dire sì o no, ma in entrambi i casi è necessario il coraggio. Io ho scelto di sviluppare due precisi linguaggi, quello della grafica e quello dell’arte urbana.
Affascinato dalle prime riviste di graffiti, nel 1994 usai la bomboletta spray su un muro e capii la potenza dell’oggetto che avevo in mano. Dal 1995 al 2000 circa ho continuato a scegliere la strada come espressione artistica, conscio di far parte di un movimento molto più grande che negli anni 90’ ha coinvolto anche l’Italia. Nonostante abbia lasciato gli spray durante l’accademia, sono rimasto legato alla strada realizzando installazioni, modifiche ai cartelli stradali, proiezioni video su pareti giganti, poster e stencil, per poi tornare definitivamente alla pittura murale nel 2006. Un muro dipinto è qualcosa di speciale! La curiosità mi ha spinto sempre ad indagare linguaggi faticosi, meno convenzionali, capaci di tracciare segni forti sul tessuto urbano. Questa passione per la città, per l’urbanistica, nasce di pari passo con la passione per i graffiti; ricordo che con un amico indagavamo sui segni che caratterizzavano il nostro paese per capire se c’erano i margini o meno per essere città. Uno di questi segni per me era la quantità di graffiti sui muri, e non solo, che oltre a marcare un preciso territorio di una crew, includeva la mia città tra i grandi centri metropolitani.
Ti definisci un grafico dei muri. Potresti spiegarci questa definizione?
Sono le due principali scuole che ho frequentato ad avermi definito nel tempo. L’Accademia delle Belle Arti e la Facoltà di Architettura. La progettazione grafica per me è fondamentale, come importante è far dialogare arte e architettura in uno spazio pubblico. Nel 2013 ho iniziato uno studio sul significato di Archigrafia, parola bellissima e poco conosciuta. Si tratta di un termine che esalta l’incontro tra grafica e architettura, spesso usato in ambienti pubblicitari e che anticipa il concetto di Supergrafica. Per me è qualcosa di più di un grande manifesto commerciale affisso, un muro dipinto è un segno grafico che può far tornare a parlare una forma architettonica che non comunica più, spesso sterile e senza slanci dinamici. Archigrafia sarà anche un workshop teorico/pratico che porterò in giro per l’Italia a partire dal prossimo mese e parlerà di comportamenti progettuali che l’architettura tradizionale non analizza più, perdendo l’occasione di trasformare i volumi esistenti in momenti di comunicazione. È molto importante mantenere un dialogo aperto tra più segmenti in una progettazione, nonostante oggi la velocità di esecuzione, le pubbliche amministrazioni, i soldi e le fitte commissioni portino spesso l’architettura e la street art a misurarsi esclusivamente con la performance per quantità e non per apporto qualitativo alla vita quotidiana.
Le tue geometriche visioni terrestri sembrano il frutto di uno sguardo profondo alla ricerca degli schemi e delle strutture che regolano l’universo, della perfezione insita nelle forme della materia e del cosmo. Credi potremmo parlare di disegno primitivo?
Ho abbandonato il segno più figurativo nel 2009, riprendendo i vecchi studi e progetti accademici rivolti a Mondrian e al neoplasticismo; un ritorno al passato avvenuto in maniera del tutto normale. Nonostante io porti avanti parallelamente disegni ispirati al mondo animale e minerale, l’astrazione di essi è l’immagine che oggi esce fuori e rappresenta in pieno la mia ricerca. Inutile dire che molto è stato già fatto e spesso il rischio è di riproporre linguaggi già sviluppati da grandi maestri, ma questo non toglie un certo atteggiamento verso lo studio che ogni artista dovrebbe avere per progredire anche di poco nella conoscenza. Non so se quello che faccio rappresenti degli schemi precisi, di sicuro il mio interesse è volto allo studio del segno e a tutte quelle tecniche di stampa tradizionali ad esso collegate. Più che disegno primitivo in sé sono i procedimenti e le tecniche che uso ad avere atteggiamenti spesso arcaici, i quali mi permettono di arrivare ad astrazioni da dove nascono i numeri, le lettere e i segni più o meno geometrici presenti nelle mie opere. Mi piace pensare all’estetica propria degli oggetti che uso per stampare, creando forme non necessariamente prese dalla realtà e dando vita a nuovi metodi di progettazione volti sempre al fine ultimo, che per me è la comunicazione.
Tra le altre cose dal 2009 curi il progetto “Vedo a Colori” per la riqualificazione dell’area portuale di Civitanova Marche. Ci racconti questa esperienza?
Sono passati quasi 6 anni dal primo intervento nell’area portuale. Oggi sono stati raggiunti numeri importanti e che sono destinati a crescere. Oltre 40 artisti da tutta Italia, 16 cantieri navali, più di 1000 metri quadri di superficie al molo sud per uno dei porti più dipinti in Italia. Un lavoro che porto avanti da solo con l’aiuto di un paio di amici fedelissimi. Tutto dedicato al mare, al porto, ai pescatori, al cuore pulsante di una città marinara. I primi anni mi sono mosso con sponsor privati, bussando porta a porta per i permessi, nel 2014 con la vittoria di un bando europeo per la riqualificazione delle aree portuali sono riuscito ad organizzare un grandissimo lavoro che mi ha impegnato 4 mesi. Oggi continuo come posso ad intervenire nell’area con aiuti di ditte private e imprese che sono interessate culturalmente al progetto. Ci sono stati anni duri dove non ho mai mollato anche solo facendo un unico muro. Non ho mai chiesto un soldo al comune perché credo che oggi più che mai quei fondi dei cittadini siano utili per cose più urgenti, per questo non trovo nulla di male nel contributo del privato, tutt’altro, è un motore fondamentale per la cultura che deve tornare a scommettere su di essa e sul territorio. Ci vuole molta tenacia soprattutto quando si decide la linea curatoriale da prendere. Vedo a Colori non è un festival e ha sempre preso le distanze da certe dinamiche modaiole che puntano sui soliti nomi portando alla deriva una disciplina che perde quotidianamente occasioni di riscatto importanti. Vedo a Colori è un’esperienza di comunicazione pubblica, volta a ripensare uno spazio asettico oggi riproposto alla città che ne fruisce in maniera attiva.
Ho unito nomi più maturi a giovani emergenti cercando di fare rete con promesse della fotografia e ottimi critici che la sanno lunga su questo mondo. In circolazione c’è il catalogo ufficiale dei primi cinque anni di lavoro, spero davvero si possa realizzare un secondo volume. Se passate a Civitanova Marche, fermatevi e passeggiate al porto…non ve ne pentirete.