Il motivo principale per il quale abbiamo deciso di pubblicare Design Playground e che ci spinge ancora oggi a farlo, dopo dieci anni, è sicuramente quello di fare rete, condividere con chi ci legge i progetti di cui ci innamoriamo, cercando di diffondere nel nostro piccolo la cultura visiva in modo libero e senza condizionamenti.
A volte siamo noi a trovare artisti, illustratori, grafici, designer o fotografi che ci colpiscono, altre volte, proprio per l’importanza del fare rete, sono altri a suggerirceli. Ed è proprio questo il caso.
Circa due mesi fa siamo stati folgorati sulla via di Damasco dal nostro caro Marco Goran Romano che nel suo nuovo canale Youtube (che vi consigliamo di seguire!) ha introdotto una rubrica dal nome Must-Follow. Nel primo video di questo nuovo format suggeriva infatti un giovane fotografo (e “grafico”) che risponde al nome di Simone Cavadini. Ci siamo innamorati anche noi del suo lavoro e abbiamo deciso di contattarlo per fargli un’intervista. Ed eccoci qui finalmente a pubblicarla.
Partiamo da una domanda di routine.
Quando è nata la tua passione per la fotografia?
Per capire meglio il mio percorso credo sia meglio ripercorrere qualche tappa partendo da lontano.
Come molti altri fotografi, la passione per la fotografia mi è stata trasmessa da piccolo attraverso la macchina fotografica di mio padre: usavo i suoi macro obiettivi passando delle ore a fotografare fiori in giardino. Crescendo, sarei voluto entrare immediatamente in una scuola di fotografia ma ho poi scoperto che non era possibile in quanto troppo giovane per essere ammesso. Ero molto deluso, ma il fatto di non aver potuto accedere direttamente ad una formazione fotografica, credo si sia rivelata una fortuna.
Il fatto di aver dovuto cambiare direzione mi ha fatto accedere al CSIA, una scuola d’arte applicata a Lugano. È qui che ho capito di essere molto attratto dalla grafica e dal metodo progettuale utilizzato nel campo della comunicazione.
Al termine di questa prima formazione però il richiamo all’immagine era ancora forte, così ho deciso di trovare una scuola che mi permettesse di avvicinarmi alla fotografia, senza però abbandonare la formazione grafica appena conclusa.
L’ECAL di Losanna era perfetta, avevo l’opportunità di sviluppare lavori fotografici e in contemporanea di cimentarmi in molti altri progetti: grafica, video, design interattivo, editoria, e svariati workshop. Questa multidisciplinarietà mi ha permesso di sperimentare molto e di uscire dopo tre anni con uno sguardo completamente diverso.
Ero molto entusiasta ma avevo ancora «le cul entre deux chaises» come dicono a Losanna, nel senso che non avevo ancora capito in che maniera volevo unire grafica e fotografia.
La risposta è arrivata qualche mese dopo quando ho avuto l’opportunità di spostarmi a Parigi per diventare il primo assistente di Guido Mocafico. L’esperienza nel suo studio fotografico è stata fantastica e mi ha spinto a lavorare duramente per trovare la mia strada. A quel punto ho capito che lo still life era la risposta giusta per me e che potevo sperimentare ancora molto unendo una parte del metodo grafico alla fotografia.
Come definiresti il tuo linguaggio fotografico?
La formazione nel campo grafico ha influenzato molto il mio lavoro fotografico. La metodologia stessa con cui affronto un nuovo progetto è molto legata all’idea che mi è stata trasmessa durante questi studi, ovvero che una buona grafica è innanzitutto una grafica che risponde al mandato, in altre parole, che risolve il problema. Sembrerà banale, ma a volte ci si dimentica di questo aspetto fondamentale concentrandosi su soluzioni puramente estetiche.
Forse un altro aspetto legato alla mia prima formazione è la ricerca di un’estrema sintesi. Quando fotografo un oggetto, tendo a rimuovere più elementi possibili semplificando al massimo la sua forma. Non saprei come descrivere il mio linguaggio, non mi definisco né grafico e neppure fotografo a volte. Forse è qualcosa che sta nel mezzo.
Susan Sontag nel suo libro «Sulla Fotografia» riporta una citazione del fotografo Frederick Sommer che dice: «La vita non è la realtà. Siamo noi che infondiamo vita nelle pietre e nei ciottoli.» Una frase audace che però riassume l’approccio surreale e rivoluzionario della fotografia di Sommer per i suoi tempi. In qualche modo questa frase, anche se parliamo di generi completamente differenti, mi ha ricondotto ai tuoi lavori. Nature morte, oggetti, dettagli che si animano (nel senso di acquistare vita) di fronte alla macchina fotografica. Ti ci rivedi?
Certamente, la fotografia non si riduce alla testimonianza della realtà, è il fotografo attraverso il suo sguardo e la sua personale sensibilità a porgerci un’interpretazione di essa. Ogni volta che scattiamo una fotografia, anche se in maniera inconscia, stiamo facendo delle scelte in base alla nostra percezione della realtà. Orientamento, punto di vista, scala, contenuto: sono solo alcune delle decisioni che prendiamo ogni volta che produciamo un’immagine.
Nel mio lavoro sono ossessionato dal dettaglio, una fotografia scattata un centimetro più in alto o più in basso può cambiare completamente la lettura che abbiamo del soggetto. Come dice giustamente Susan Sontag: «la bellezza non è insita in nulla; bisogna trovarla, con un altro modo di vedere».
Arte, grafica, fotografia si intrecciano costantemente nei tuoi lavori. Gli oggetti nelle tue fotografie, ne sono solo in parte i protagonisti. Sembra infatti che tutto ciò che fa parte dell’inquadratura abbia un suo ruolo più alto rispetto a quello di rappresentare se stesso, ciò quello di partecipare ad una perfetta composizione grafica/fotografica.
Al di là della composizione, che è sicuramente da considerare, c’è una cosa a cui accennavo prima che è molto più importante della forma: trovare la soluzione al problema. Una volta che abbiamo risposto al mandato, abbiamo tutti gli elementi per iniziare a concentrarci sulla struttura dell’immagine.
Per fare un paio di esempi, in un editoriale per Numéro Magazine, i soggetti erano delle palette per i trucchi, e la richiesta del committente era di trovare un modo per valorizzare le textures di questi prodotti. Per realizzare la richiesta, ho semplificato il contenitore delle palette il più possibile per dare maggiore importanza al vero prodotto (texture) togliendone quindi al suo contenitore (scatola). L’architettura esterna del prodotto è stata ridotta all’essenziale togliendo il superfluo e mantenendo unicamente le forme dominanti.
Invece in un’altra edizione di Numéro Magazine il soggetto erano dei rossetti e non potevo semplificarli troppo, il committente voleva avere una lettura perfetta dei prodotti.
Ho deciso di fotografare ogni rossetto con tre punti di vista diversi, zenitale, frontale ed orizzontale in modo da far comprendere al meglio il loro volume. Il risultato funzionava, ma mancava qualcosa per unire la serie. Guardando i prodotti mi sono reso conto che nelle textures non c’erano colori rosa o altre tinte particolari, ma rientravano tutti in una gradazione di rossi.
Così ho deciso di selezionare le forme dominanti di ogni prodotto ed aggiungerle alla composizione per rafforzarne la loro architettura. All’interno di questi elementi ho poi inserito le sfumature di rosso presenti nelle textures in modo da unire la serie.
Come accennavi, ogni elemento nell’inquadratura ha un suo ruolo, è quindi importante saper giustificare ogni scelta.
Chi sono i riferimenti che ti hanno segnato lungo il tuo cammino, sia in ambito fotografico che in altri ambiti?
Sicuramente l’esperienza al fianco di Guido Mocafico mi ha dato tanto ed è stato un passaggio fondamentale. Un altro riferimento è certamente Bruno Monguzzi, nella sua vita ha lavorato molto intrecciando grafica e fotografia ed il fatto di essere cresciuto vedendo i suoi manifesti per le strade, ha sicuramente segnato il mio percorso.
Andando indietro con gli anni, altre figure che mi hanno sempre ispirato sono Herbert Matter, Hans Finsler e Franco Grignani.