Niko Giovanni Coniglio è un fotografo ritrattista nato a Poggibonsi il 26 ottobre 1987. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare il percorso fatto fino ad ora e le esperienze che lo hanno segnato dal punto di vista umano e professionale.
Quali sono gli studi che hai fatto?
Mi sono laureato in Scienze della Comunicazione nel 2009 e mi sono trasferito a Milano. Mentre mi stavo laureando nel triennio, ho iniziato a frequentare il biennio specialistico in fotografia all’Accademia di Belle Arti di Brera. Due anni dopo mi sono laureato.
fare ritratti alle persone a me vicine, per prima cosa, mi permette di passare del tempo con loro e inoltre mi aiuta a conoscerle meglio e capire un po’ meglio anche la mia storia.
Perché hai scelto il ritratto?
Non so perché ho scelto il ritratto. Ho iniziato a fotografare le persone che avevo intorno, amici e familiari. Poi in Accademia mi sono trovato costretto a fare progetti fotografici e l’unica cosa di sensato che mi veniva in mente era raccontare la mia storia attraverso le persone che mi circondano. Anche se è molto difficile perché il rischio è di fare lavori troppo didascalici e descrittivi. Comunque a prescindere dal risultato che ne viene fuori, è il processo la parte importante per me. Anche se non riesco a raccontare ciò che voglio come vorrei attraverso la fotografia, fare ritratti alle persone a me vicine, per prima cosa, mi permette di passare del tempo con loro e inoltre mi aiuta a conoscerle meglio e capire un po’ meglio anche la mia storia. In particolare lavoro molto con mia madre. Ho iniziato durante il periodo dell’Accademia, ho fatto il progetto di tesi su di lei e sto tutt’ora portando avanti dei lavori insieme a lei.
Quali sono i fotografi che ti hanno ispirato o che senti più vicino?
Ci sono vari autori che mi hanno particolarmente colpito, per motivi diversi. Ho sempre preferito chi ha qualcosa da dire, una storia da raccontare. Come i ritratti di contadini scattati da Walker Evans durante la crisi degli anni ’30. Oppure le fotografie di Bernd e Hilla Becher, per motivi completamente diversi. Il rigore del metodo e l’originalità del progetto sono espressi perfettamente dal lavoro di questi due autori. Dedizione, coerenza e precisione sono qualità che contraddistinguono i loro progetti e sono fattori indispensabili per la realizzazione di lavori dal valore indiscusso dal punto di vista formale, del contenuto e della presentazione.
Altra fotografa che mi ha molto colpito è Diane Arbus. Quello che mi affascina in lei è la volontà di creare un rapporto con il soggetto fotografato, la volontà di capire come il soggetto accetti la propria condizione e il ribaltamento fra ciò che è considerato normale e ciò che è etichettato diverso o deforme.
Credo che la capacità di ascoltare, che trasposto in fotografia corrisponde alla capacità di osservare, sia essenziale per comprendere il soggetto che si ha di fronte e il suo modo di concepire la vita; soprattutto per fare un lavoro dal quale emerga la persona, più che l’immagine.
Gli autori che cito più spesso e che sento più vicini sono Richard Avedon e Annie Leibovitz. Ammiro Avedon per la capacità di sintesi, grazie alla quale con pochi elementi riesce a raccontare una storia, a prescindere se sia vera o meno. Adoro Annie Leibovitz, per l’uso che fa della luce e per la messa in scena/rappresentazione della realtà.
La cosa probabilmente più difficile del ritratto non è realizzare un buono scatto ma creare una comunicazione con il soggetto, metterlo a proprio agio e instaurare un rapporto di fiducia. Come ti muovi per creare questa sintonia?
Non ho una strategia particolare al riguardo, semplicemente perché non esiste. Come dice Annie Leibovitz, bisogna reagire a ciò che accade. Non sono il tipo che mentre scatta parla molto. Cerco di essere me stesso e di assecondare le esigenze di chi ho di fronte e della situazione. Ci sono dei trucchetti per mettere a proprio agio una persona, ma sono convinto che sia molto più producente comportarsi in modo naturale, perché la tua personalità ti rende unico e conseguentemente anche in fotografia emergerà questa originalità. Ciò che sei è il motivo per cui sarai richiesto, o per cui non lo sarai.
Più che altro cerco di essere veloce. Spesso i primi scatti sono i migliori. Poi dipende anche da cosa si cerca. Un conto è dover fare un servizio di moda e un conto è voler fare un ritratto diretto e onesto del momento in cui incontri una persona. In questo caso non cerco la bella foto, cerco l’espressione che il soggetto ti da in quel momento, la reazione alla tua presenza. è anche vero che non ci si può sempre permettere di fare questo tipo di lavoro, soprattutto se lavori per qualcuno, quindi spesso conviene trovare un compromesso.
Ritrarre tua madre è probabilmente molto più semplice perché la fiducia e l’empatia è già alla base del vostro rapporto, cosa comunque non così scontata. Quale è la forza del vostro legame, oltre a quello naturale tra madre e figlio?
Ho passato i primi anni di vita con mia mamma. Poi, da quando ho iniziato le scuole elementari, sono andato a vivere con i nonni, perché più vicini alla mia scuola e perché mia madre non ce la faceva a crescermi da sola. Quindi con lei stavo veramente poco. La vedevo ogni tanto nel fine settimana. Quando è morto mio nonno sono stato affidato ad una famiglia di San Gimignano, con la quale vivo tutt’ora. Stavo mesi senza vederla, senza vedere la mia famiglia. Sono stato anni senza vedere mio fratello. Ho iniziato ad avere di nuovo contatti più frequenti quando ho avuto modo di spostarmi autonomamente e la situazione familiare era più tranquilla. Tirando le somme, il tempo trascorso con mia madre in tutta la mia vita è stato davvero poco e l’educazione l’ho ricevuta dai nonni e dalla famiglia affidataria. Credo che per una madre sia grande il peso di non poter crescere il proprio figlio, non potergli dare il meglio perché il meglio di sé non è considerato abbastanza. La sensibilità è spesso confusa con la debolezza.
Mia madre è una persona sensibile e, nelle situazioni che ha vissuto e che in un certo senso ha subito, è comprensibile che non abbia avuto la forza di operare un cambiamento radicale nella sua vita e che abbia un contatto con la realtà distorto o piuttosto bizzarro. Lei stessa in un diario di memorie che le ho chiesto di scrivere dice: ” Certo, si sono create discrepanze dolorose anche nella mia anima ed ho vissuto, per chissà quanto tempo, fuori dalla realtà”. Ultimamente la vedo molto spesso. Da quando abbiamo iniziato a fare foto, trascorriamo molto tempo insieme. La fotografia si è rivelata più un pretesto per stare insieme che un modo per scattare foto. Come ho sempre scritto, il nostro rapporto passa attraverso la fotografia e in un certo senso mi aiuta a conoscerla.
Quale è stato tra quelli incontrati fino ad ora il personaggio più difficile da fotografare?
Non saprei qual è il personaggio con cui mi sono trovato più in difficoltà. La situazione più difficile è stato il lavoro di ritrattistica che ho fatto per Bookcity Milano. Controllando i file con calma mi sono accorto che ho fatto al massimo quattro scatti per ogni personaggio, a volte due. Nel lavoro fatto per la Fondazione Siena Jazz la difficoltà era lo spazio a disposizione. Mi sono ritrovato a scattare in un corridoio a ottanta centimetri dal soggetto. Anche in quel caso dovevo concludere velocemente, ma forse la difficoltà maggiore era davvero la mancanza di spazio.
Da quale fotografo (contemporaneo o non) ti faresti fare un ritratto?
Probabilmente dalla Leibovitz.
Sei stato l’ultimo fotografo di Carlo Monni. Cosa ti porti dentro dell’esperienza con un poeta come lui?
Sono stato chiamato come direttore della fotografia (ruolo per cui non ho assolutamente competenze) in un film con Carlo Monni. Il titolo doveva essere “L’ornitorinco”. Il modo di lavorare era semplice e l’attrezzatura e i budget praticamente inesistenti. Lavoravamo con una camera, un cavalletto, due faretti per gli interni, frost e pannello.
Io dovevo decidere la luce e suggerire all’operatore il taglio delle immagini e i movimenti macchina. La tentazione iniziale era quella di rifiutare l’incarico, per affidarlo a qualcuno più competente.si trattava di un film autoprodotto senza pretese di larga diffusione, ho deciso di accettare.
Fra una ripresa e l’altra ho avuto modo di scattare un po’ di foto a Carlo, con gli abiti di scena. Piano piano è venuta fuori l’idea di raccontare la storia anche attraverso la fotografia. Sarebbe stato interessante affiancare alle riprese anche le foto: due mezzi differenti per raccontare la stessa storia. Purtroppo Carlo è morto poco tempo dopo l’inizio delle riprese. Per un ragazzo come me, cresciuto con i film di comici toscani come Benigni e Nuti, aver avuto la possibilità di trascorrere del tempo a contatto con Carlo è stato un privilegio e una fortuna che non capitano a tutti, né tantomeno tutti i giorni. Inizialmente mi metteva soggezione e mi trattenevo anche nello scattargli foto per timore di infastidirlo. Però poi conoscendolo ho iniziato a vedere al di là del suo broncio, accorgendomi della bontà che si nascondeva dietro ai suoi grossi occhi celesti. Ho avuto modo di parlare un po’ con lui affrontando vari argomenti, a partire dalla classe politica fino alla sua teoria sulle donne. Mi ha raccontato qualche aneddoto legato a Non ci resta che piangere. Una cosa che mi ha colpito molto è un discorso che ha fatto riguardo al teatro. “Io m’accontento di giocare in serie B. Poi ogni tanto mi fanno giocare anche in serie A, ma mi va bene così”. Dei soldi e della fama non gli importava niente; lui amava il teatro e recitava per l’amore di farlo.